Incendio di Notre Dame de Paris

Mentre leggevo Dezeen, uno dei blog di architettura stranieri che va per la maggiore, mi sono imbattuto nel video che potete vedere appena sotto. Si tratta di un visual project prodotto dallo studio di architettura belga Miysis Studio per un fantasioso intervento di recupero delle coperture della Cattedrale di Notre-Dame de Paris coinvolta, come tutti sappiano, in un devastante incendio che ha cancellato la forêt, l’intera orditura lignea a copertura della navata e la flèche, la guglia che svettava fino a raggiungere i novantasei metri di altezza.

Il CEO di Miysis Studio, Denis Stevens ci racconta come, in questa sua specie di endlosung, si sia “cercato un mix tra il legno tradizionali e materiali innovativi per cercare il giusto bilanciamento tra storia e futuro”.

La parola “bilanciamento” mi ha provocato un brivido lungo la schiena e mi è tornato in mente quanto scrisse Victor Hugo nel lontano 1832, proprio a proposito di Notre-Dame de Paris:

E’ una cosa che rattrista vedere in quali mani è caduta l’architettura medievale e in quale modo gli impastatori di gesso d’oggi trattano le rovine di codesta grande arte, è perfino una vergogna per noi, uomini intelligenti, che li vediamo fare e ci contentiamo di fischiarli!”

“Gâcheurs de plâtre” li aveva chiamati: impastatori di gesso. Nemmeno, giusto per dire, stuccatori inadatti, decoratori incapaci. Una delegittimazione totale: “impastano”, ma non hanno niente a che vedere con il concetto di restaurare, nemmeno a farlo male.

In realtà Hugo non pensava alla flèche, se non altro perché quella originale del Duecento era stata demolita, in quanto traballante, nel 1792. E neppure poteva sapere che di lì a poco, nel 1858, Viollet-le-Duc, ne avrebbe installata una sua versione riveduta e corretta, secondo i dettami del restauro stilistico. Hugo è morto nel 1885 e non mi è dato di sapere (magari qualcuno che legge mi sa aiutare) se abbia successivamente commentato il lavoro del restauratore parigino.

Sta di fatto che Viollet-le-Duc si prese la briga di piantare in punta alla Cattedrale questa spagnoletta da circa novecento tonnellate tra struttura in rovere e rivestimento in piombo, con tanto di campane e quattro statue in rame di cui una – San Tommaso, protettore degli architetti – con la sua faccia. E, proprio perché la fortuna aiuta gli audaci, la statua è una delle poche cose ad essersi salvata dall’incendio. Non è il caso di riaprire l’annosa questione Viollet-le-Duc contro John Ruskin per cui prendiamo per buono che la guglia andasse benone così com’era stata rifatta, nell’Ottocento.

Torniamo quindi a Victor Hugo e i gâcheurs de plâtre.

…perchè da gâcheurs de plâtre a gâcheurs d’images, il passo è molto breve.

È già qualche annetto che si discute su come si evolverà la professione dell’architetto nel futuro. Oggi, in un web popolato di motivatori-santoni e idoli-post-visionari, anche i sassi hanno capito che il cambiamento sarà inevitabile e per certi versi ambiguo. In tal senso è ormai famoso il Tomorrow’s Jobs di Microsoft secondo il quale “il quale il 65% degli studenti di oggi farà lavori che ancora non esistono”. E questa tendenza alla vaghezza coinvolgerà probabilmente anche la nostra categoria .

Se da un lato il pensiero di un mondo senza SCIA, PDC, POS e PSC non è che proprio mi devasti, è indubbio che il pensiero su cosa faranno gli architetti nel domani sia molto intrigante. Se ne leggono di ogni, peraltro. Tra le più gettonate c’è appunto il “digital architect”, l’architetto specializzato nella realtà virtuale, o per meglio dire “estesa”, che vede i prodromi nel bel lavoro dello studio Mysis. Parliamo di esperienze visuali estreme, tipo Jurassic Park, nei quali chi non sa leggere un disegno manco a stamparglielo in fronte, si vede il filmino et voilà. Ottimo e contenti tutti.

Ma c’è un ma. Qui parliamo di restauro.

Corro il rischio di passare per Amish se dico che piantare un parchetto giochi in cima a Notre-Dame de Paris mi sembra un’operazione senza alcun senso?

Mi sembra invece che questi nuovi impastatori di immagini affrontino il tema solo dal punto di vista dell’impatto emotivo e scenografico ma non certo da quello storico, culturale e artistico, che poi è il cuore della faccenda. Perché per allontanare la mente dall’effetto “wow” (il video è obiettivamente spettacoloso) basterebbe domandarsi cosa sia un edificio monumentale, quale sia il significato profondo di una operazione di restauro di un monumento. E giustificare il brivido che ha originato questa pagina.

Per carità, dalla notte del disastro in molti si sono divertiti a fare proposte simpaticamente oltraggiose: un parcheggio, un circo equestre, un McDonald e una piscina olimpionica. Ma scherzavano…

Mi perdoni quindi il CEO di Miysis Studio Denis Stevens, ma l’accrocco con il quale ipotizza di sostituire la forêt è spiritoso, irriverente, ma deve restare nel mondo in cui si mettono i baffi alla Gioconda. Ma non mi deve parlare di “giusto bilanciamento tra storia e futuro”. Quello no.

Restaurare significa trasmettere significati, conoscenza, cultura, valore. I monumenti non sono solo vecchi edifici da reiterare, ma hanno la pesante responsabilità di essere un termine di paragone tra il mondo che fu e quello verrà. E conservarli è materia difficile, pure con tanta buona volontà, conoscenza e quattrini.

Il filmino “wow” a qualcosa è dunque servito. Mi ha permesso di dare un primo abbozzo di risposta su chi sarà l’architetto del domani, almeno per il restauro.

E’ il tizio che dovrà avere le competenze per affrontare con metodo e responsabilità quel disastro lì, in punta a Notre-Dame de Paris. E magari poi andrà anche a farsi una passeggiata in un bel giardinetto. Magari però, dall’altra parte della strada.

La flèche della Cattedrale di Notre Dame de Paris durante la costruzione a metà Ottocento.
La costruzione della flechè nel 1858 su disegno di Eugène Viollet-le-Duc